«Quando le chiesero “Qual è il luogo che ama di più?”, disse: “La traversata”. Una risposta che la racconta tutta: solcare il mare è andare oltre, non accontentarsi. Soltanto nel movimento incessante, nella ricerca continua possiamo fare al meglio il nostro mestiere. E, forse, fare al meglio il mestiere di vivere». Sonia Bergamasco parla di Eleonora Duse, ma parla pure di sé. Del suo perenne bisogno di esplorare e misurarsi con se stessa.
La musica dietro le quinte de “La vita accanto” di Marco Tullio Giordana
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Prendiamo Duse, The Greatest, per esempio, il documentario alla Festa di Roma e nelle sale dal febbraio 2025. Questo suo debutto dietro la macchina da presa è solo l’ultimo tassello di una carriera composita: pianista, attrice teatrale e cinematografica, regista di prosa e d’opera, poetessa e saggista (nel 2023 ha pubblicato con Einaudi Un corpo per tutti).
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Eleonora Duse girò un solo film
Il ritratto della Divinaemerge, come se si trattasse di un’investigazione, dalle lettere, dai materiali d’archivio fotografici e video (la ricordano Luchino Visconti ed Eva Le Gallienne); dalle scene dell’unico film, Cenere; dalle interviste a Ellen Burstyn (collezionatrice di oggetti che le sono appartenuti), Helen Mirren e a vari studiosi; dalle riprese di un workshop con le colleghe Elena Bucci, Federica Fracassi, Caterina Sanvi, Giuditta Vasile. Con la partecipazione (stra)ordinaria del marito, Fabrizio Gifuni e di Valeria Bruni Tedeschi, che sarà protagonista di Duse di Pietro Marcello, in uscita nel 2025.
Sonia Bergamasco (foto Alberto Terrile).
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Sonia Bergamasco: “Mi chiamava”
Confessi: “Eleonora Duse c’est moi”.
Oh no, mai pensato di identificarmi! Però ho sempre provato un amore, un senso di gratitudine e un’emozione profonda sin da quando frequentavo la scuola del Piccolo di Milano e la sua immagine mi “chiamava” da una gigantografia che Giorgio Strehler aveva voluto sulle scale.
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Antidiva femminista
Perché questa scelta?
L’aveva conosciuta attraverso le memorie del collega francese Jacques Copeau: a Parigi era famosa quanto Sarah Bernhardt, Auguste Rodin si ispirò a lei per una scultura intitolata Il dolore. Aveva ammiratori ovunque: James Joyce, giovanissimo, la conobbe a Londra e le dedicò una poesia, George Bernard Shaw la descrisse come l’Attrice Assoluta. In Russia colpì Čechov e influenzò Stanislavskij.
E neppure conosceva le lingue.
No, portava gli spettacoli in italiano (fra l’altro all’epoca non c’erano i sopratitoli). Vero che le storie erano di repertorio, per lo più conosciute, ma il pubblico arrivava a capire al di là della parola… D’un balzo, ha portato la nostra professione nel Novecento. Resta una figura contemporanea pure nell’essere un’antidiva.
Allude al rifiuto del trucco, al lasciarsi i capelli bianchi?
Per lei l’espressione artistica – l’Arte con la A maiuscola, come scriveva – precedeva qualsiasi preoccupazione d’immagine. Una dimostrazione di sicurezza professionale e di forza caratteriale. Era vicina ai movimenti femministi – anzi, era femminismo incarnato con le scelte lavorative e personali (lasciare un marito, crescere da sola una figlia, creare una Casa per le Attrici a Roma…) – eppure voleva conservarsi una zona di libertà, non essere nel gruppo.
“La Duse ha fatto la rivoluzione” si afferma nel documentario.
La sua presenza scenica era inedita, eversiva; il corpo intercettava i minimi scarti dell’anima e della sensibilità. Veniva dalle generazioni che sul palco declamavano, assumevano pose statuarie, e ha rotto con quell’impostazione non per metodo, per necessità: non poteva esprimersi altrimenti! Due grandissimi come Charlie Chaplin e Lee Strasberg, che la videro, restarono scossi e concordarono: era la più grande artista che avessero mai ammirato. Strasberg si ricordò di lei quando fondò e cominciò a insegnare all’Actors Studio. Ha “contagiato” allievi come la Burstyn e Al Pacino, che la cita ancora oggi fra le star preferite.
Eleonora Duse.
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“Fu D’Annunzio a cercarla”
In una scena si accenna a spettatrici che avrebbero cambiato vita grazie a Eleonora. Un po’ eccessivo, no?
È una provocazione, ma fino a un certo punto. Il grande artista è capace di sconvolgere le tue convinzioni. Se sei disposto a metterti in discussione, ovvio: non c’è nulla di stregonesco. I detrattori dell’epoca – e i successivi – l’hanno confinata nel cliché del “dolorismo”, dipingendola come una che si trova bene soltanto nelle passioni forti e nei contrasti emotivi. Secondo me, invece, era spiritosa, pronta a godere dell’esistenza, di ogni istante. C’è peraltro una visione al maschile che va scalzata.
In che senso?
Viene costantemente associata a D’Annunzio, mentre era affermatissima quando fu il poeta ad avvicinarla perché desiderava scrivere per il teatro.
In Duse, The Greatest suo marito rivela di aver tanto inseguito due foto in cui era ritratta in Casa di bambola con e senza veletta, e di essere riuscito a comprarle… È un fan pure lui?
È stato un preziossimo regalo! Gli avevo fatto la testa come un pallone per anni, potete immaginare. (ride)
Essere collega a volte si rivela uno svantaggio…
Non è un collega! È Fabrizio, ci sono decenni di condivisione, è la mia vita.
Pare nervosetto: quando interviene nel “doc”, parlando tortura un’innocente custodia degli occhiali.
Avete visto come l’ha massacrata? (ride) Non è nervosetto, è concentrato.
Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni in un momento di “Duse, The Greatest”.
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Sonia Bergamasco: “Il teatro mi ha salvato la vita”
La gioia più grande della Duse – si scopre – stava nel momento delle prove. E la sua?
Sì, condivido: è la fase dell’immaginazione al potere. Però per me c’è anche la gioia dello stare in scena a teatro, la gioia del ciak al cinema. L’irripetibilità dell’istante, il presente, quando lasci che il Gioco (con la G maiuscola) prenda tutto lo spazio, come nell’infanzia: se sei un albero sei un albero, se sei un mago sei un mago…
Aveva capito fin da bambina che la recitazione sarebbe stata il suo “gioco” preferito?
No, affatto, per quanto ora sia l’unica cosa che mi appaga, non potrei immaginarmi altrove. Non sarebbe esagerato persino affermare che fare l’attrice mi abbia salvato la vita.
E come?
Ho trovato una sorta di porto, senza considerare che il gesto dell’attore è anche liberatorio, rigenerante dalle sofferenze, dalle delusioni, dalle ferite della vita. Da piccola, studiando pianoforte, mi ero ritrovata in una dimensione assolutamente individuale, solitaria. Quando è mancato mio padre, all’improvviso, avevo 18 anni e stavo per diplomarmi al Conservatorio: lessi casualmente il bando della Scuola del Piccolo e impulsivamente decisi di partecipare.
Sonia Bergamasco con Fabrizio Gifuni e la figlia Valeria alla Mostra di Venezia (Getty Images).
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“La meglio gioventù”
Non può essere stata un’attrazione fatale così immediata.
Con il senno di poi, no. (ride forte) Avevo bisogno di stare con gli altri, di trovare una casa. Di trovare una comunità di persone che condividesse con me la creatività: c’era un’unica cosa di cui ero sicura, non avrei sopportato la ripetitività. Ho cercato a occhi chiusi e sono stata fortunata: ho raggiunto questo approdo prima nel teatro e poi nel cinema. Non cercavo successo o affermazione, ma la possibilità di capirmi. Non ho capito niente, naturalmente, però ci provo. (ride soave)
I tre ruoli chiave nelle tappe di conoscenza?
Sicuramente la Giulia di La meglio gioventù (diretto da Marco Tullio Giordana nel 2003, ndr) per la complessità e per la sua vicenda musicale: a un certo punto si blocca (vende addirittura il pianoforte) per prendere la strada – dolorosa, fallimentare – della lotta armata. L’ho abbracciata con tutta me stessa ed era difficile, è difficile, amarla. Subito dopo c’è probabilmente Quo vado? con Checco Zalone: quella dottoressa per cui mi fermano per strada è stata un personaggio che mi ha dato parecchio – al di là della popolarità – per l’irriverenza nell’approccio al lavoro e per la purezza del tempo comico a cui mi ha costretto.
Sonia Bergamasco, tra tv, cinema e teatroguarda le foto
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“Energia folle e potente”
E al terzo posto?
Chi ha paura di Virginia Woolf?, che ho portato in tournée un paio d’anni fa con Vinicio Marchioni e la regia di Antonio Latella: quella Marta per me è stata una rivelazione, così divertente, tragicomica. Mi ha dato la possibilità di scatenarmi, di abbandonarmi a un’energia folle e potente. Un’altra donna rispetto a quella che sono, per quanto da tempo mi prenda meno sul serio.
Quando ha cominciato?
Negli anni, grazie al cielo, ti alleggerisci. Con personaggi decisamente portati in commedia ho cominciato a misurarmi con qualcosa che avevo sicuramente di mio e però non era ancora stato espresso: si è rivelato una bella scoperta, innanzitutto per me. L’esperienza della maternità può liberare parecchio dai pesi (non per forza, come testimonia il mio ultimo film, La vita accanto). Può “decentrarti”, ecco (ride).
Le sue figlie ormai sono grandi. Mostrano già la vostra stessa vocazione?
Valeria no, è interessata alla direzione della fotografia. Maria invece sta cominciando questa professione difficile.
Preoccupata?
Ognuno deve seguire la sua chiamata. Posso solo sperare che sia il più possibile felice.
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