Rivive il mito di Eleonora Duse, a cento anni dalla morte in un albergo di Pittsburgh, durante la tournée americana. Ma a dire il vero non era mai tramontato. Artista inafferrabile e ineffabile ha influenzato generazioni di attori e soprattutto attrici come si vede nel film di Sonia Bergamasco Duse the Greatest, alla 19ma Festa di Roma in Freestyle Arts. Amata da Lee Strasberg, futuro direttore dell’Actor’s Studio, che la vide da bambino e la trasferì ai suoi allievi (tra cui Marilyn Monroe, che teneva una foto della Duse sempre con sé come faceva anche Anna Magnani), adorata da Charlie Chaplin che dopo averla applaudita a Los Angeles la definì “la più grande artista che ho mai visto”, ancora fertile in star contemporanee da Ellen Burstyn (che ha acquistato parte della collezione di libri e cimeli di Eva Le Gallienne) a Valeria Bruni Tedeschi, che la interpreta nel film di Pietro Marcello attualmente in lavorazione, fino a Helen Mirren che da lei trae ispirazione.
Tra interviste, testimonianze, fotografie e immagini in movimento (quelle dell’Archivio Luce e l’unica apparizione di Duse al cinema, in Cenere di Febo Mari del 1916, dal romanzo di Grazia Deledda), l’attrice milanese di film come La meglio gioventù e Riccardo va all’inferno indaga sul mistero Duse. Nata nel 1858 a Vigevano – ma la famiglia era di Chioggia – dopo un’infanzia molto dura, si dedicò al teatro, senza mai rilasciare interviste, senza scrivere una autobiografia. Ciò che sappiamo di lei viene dalle sue lettere – che in parte vennero distrutte dalla figlia Enrichetta, ultracattolica – e da testimonianze altrui, Gabriele D’Annunzio, il britannico Gordon Craig, Luchino Visconti che ne parla in un’intervista con Lilla Brignone. Nel film di Sonia Bergamasco, prodotto da Propaganda con Quoiat Films e Luce Cinecittà, in collaborazione con Rai Cinema, prendono la parola anche Annamaria Andreoli, Fabrizio Gifuni, Ferruccio Marotti, Emiliano Morreale e Mirella Schino, e compaiono quattro giovani attrici (Elena Bucci, Federica Fracassi, Caterina Sanvi, Giuditta Vasile) impegnate in un workshop su di lei ad Asolo, la città dove è sepolta e che aveva scelto come casa, ma senza mai abitarci stabilmente. A chi le chiedeva quale fosse il suo paese preferito, rispondeva infatti “la traversata”.
Chi è Eleonora Duse per lei? Un modello, un archetipo?
Non riesco a parlare di modello, per me è un incontro del cuore. Ho iniziato a conoscerla da quello che è stato scritto su di lei. Ho letto le centinaia di lettere che ha lasciato, che sono un patrimonio ricchissimo. Ho osservato le foto, i quadri, le sculture, ho ascoltato le testimonianze, ho visto il suo unico film in bianco e nero, Cenere. Ho avuto la possibilità di incontrare, nell’immaginazione, una donna e un’artista che aveva una potenza creativa così profonda da arrivare fino a me, cento anni dopo. Provo un senso di gratitudine per chi continua a espandere il flusso della creazione, desiderando andare oltre, muoversi verso qualcosa di nuovo, provare qualcosa di più esatto e forte.
Quando ha cominciato ad avvicinarsi a Eleonora Duse?
Molti anni fa, all’inizio per un lavoro teatrale, poi ho capito che doveva essere per il cinema. Ho cominciato a tessere una ragnatela di rapporti a livello internazionale. In tutti coloro che ho intervistato ho trovato un senso di amore nel percepire la profondità dell’inquietudine di questa artista.
E’ partita anche da una domanda personale?
Mi sono chiesta e ho chiesto agli intervistati chi sarebbe oggi Eleonora. Aveva la traversata come luogo del cuore, a parte una città fantasma come Venezia che amava. Non ho mai voluto fare un biopic, ma ho cercato di avvicinarmi a lei, di cogliere la sua energia, il processo creativo che lei ha messo in campo e che sento ancora vivo. Mi emoziona quella febbre, il non riuscire a stare fermi. All’inizio non prevedevo di fare anche la regia, ma mi è stato chiesto dai produttori. Il documentario l’ho scritto e pensato con Mariapaola Pierini.
Continuerà a fare la regista?
Non lo so. La forma documentario è meravigliosa e il montaggio mi ha molto coinvolto e mi ha dato tantissimo, i montatori sono Federico Palmerini e Diego Bellante, due giovani uomini che hanno portato qualcosa di diverso in un film tutto di donne.
Il mistero Duse è legato anche alla sua ritrosia nel raccontarsi, c’è un continuo rivelarsi e nascondersi nella sua arte e nella sua vita.
C’è una bellissima lettera in cui lei dice, a chi le chiede qual è il suo metodo: “non posso rispondere, io che mi nascondevo, sono riuscita a piangere in scena e fare di questo pianto qualcosa di universale”. Si interrogava molto sul suo mestiere e si è data alcune risposte, ma nella sua grande riservatezza voleva conservare il mistero. Il contrario di Sarah Bernhardt, che infatti è apparsa in moltissimi film.
Duse invece è apparsa solo in un film, Cenere. Che rapporto aveva con il cinema?
Cenere non l’ha amato, ma amava molto il cinema, che frequentava spesso. Rispetto al teatro, dove era autrice, al cinema ha dovuto sottostare a un regista e questo l’ha molto turbata, poi ha capito che c’era il primo piano e si deve essere sentita probabilmente vecchia, ne rifuggiva. Di lei si diceva che non vestisse bene, che fosse sciatta. Forse non le interessava particolarmente, anche se fu vestita da un grande sarto parigino e anche dal pittore e scenografo Mariano Fortuny a Venezia.